
John Coltrane usava il canovaccio di “My favourite things”, brano originariamente scritto da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II per il musical “The sound of music”, per far sfogo ai suoi sentimenti del momento. Quando cominciava a suonarla, partendo dal tema iniziale, dava il via a lunghe improvvisazioni durante i suoi live che descrivevano sensazioni labili, altrimenti impossibili da trattenere.
Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo dal vivo probabilmente potrebbe confermare. Io non sono fra questi, purtroppo, ma posso immaginare sia effettivamente così.
“My favourite things” non è sola. Sono molti i motivi musicali che hanno saputo, che sanno, innalzare lo sguardo del bravo ascoltatore, trasformare il punto di vista, far discernere la percezione fra ciò che è e ciò che è sogno, desiderio.
“In a sentimental mood” di Duke Ellington è una di queste. Scritta, pare, nel tentativo di portare la tranquillità dopo un litigio fra due amici, è diventato probabilmente uno dei brani più importanti di tutto il genere jazz, grazie anche alle interpretazioni che seguirono la versione originale di Ellington di tanti e importantissimi artisti, fra cui Ella Fitzgerald, Django Reinhardt, Bill Evans.
Qui si chiude la parte monografica che dovrebbe presentare il topic, e si apre quella più strettamente personale.
Spesso sento la necessità di aprirmi all’ascolto più profondo di me stesso, e questo brano è ideale per accompagnare quell’esercizio. Ricordo che mi ci avvicinai perché, ancora bambino, rimasi colpito dal verso di Paolo Conte della canzone “Lo zio”:
Ecco Duke Ellington, grande boxeur tutto ventagli e silenzi
Ridi, selvaggio, ridi ridi tra i gelsomini dell’Africa buia
Immaginavo, nell’inesperienza dei miei 8 anni circa, che quel Duke fosse un nero combattente del tutto simile ad Alì o Frazier, grosso, muscoloso, cattivo ma corretto.
Non potevo sapere che era uno dei più grandi musicisti jazz, che era entrato nel mondo della musica grazie al genere jungle, unico che i bianchi d’America nei primi anni del ‘900 tolleravano come esclusività dei neri. No, non potevo: lo scoprii dopo, quando qualche anno più tardi mi misi a cercare la storia di Duke Ellington e scoprii chi fosse, in realtà.
Oggi ascolto “In a sentimental mood” meravigliandomi ogni volta di come si riveli una miniera che restituisce sempre qualcosa di nuovo. Rimane impressa come una sorta di cantilena che fa spaziare lo sguardo, e lo rimodella, con un focus tutto particolare su ciò che è personale e intimo. Tranquillizza, e rallenta lo slancio dato dall’impulsività. Una sorta di placebo dell’anima, più che una semplice successioni di suoni.
Esagero? Forse.
Capita, se si entra in empatia con la musica. Esplorando a fondo, sono sicuro che ognuno possa ritrovare quel senso.
Personalmente capita con molti altri brani. Ad esempio con “Almost Blue” nella versione cantata di Chet Baker. Ma questa è, come si dice in questi casi, un’altra storia.
Ora sto parlando di “In a sentimetal mood”, che è a pieno titolo una delle mie cose preferite. Mi serviva solo un posto giusto dove raccontarlo: ho pensato di farlo qui.
(Grazie Ross per avermene dato la possibilità).
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